Da un racconto di Ginevra Barbetti sul Borgo del Balsamico
Il muso timido della mia cinquecento arancione del ‘77, ormai scassata e scomoda quanto la vita, entra che è già notte dentro le braccia metalliche di un cancello aitante come un ragazzone emiliano nel fiore degli anni. Sono qui per scrivere, tra Vezzano sul Crostolo e Montecavolo. In un crocevia di nomi così non possono che nascere situazioni memorabili, direte voi. Ad Albinea, per la precisione, ben lontana da certi rumori e odori che ti ovattano fino a non sentirli più.
E invece bisogna allontanarsi, ogni tanto, per accorgersene ancora.
Intanto rivedo le stelle. Così tante solo una volta, a 16 anni, quando il tipo che mi piaceva mi portò sul suo Ciao sghembo e tremulo fino alla collina più alta di Firenze, per spiegarmi le costellazioni tolemaiche. Io però ero senza occhiali, e vedevo solo una cappa plumbea nero peciata. Lanciavo comunque il braccio all’insù indicando astri a caso con una discreta spavalderia: “Questa qui come si chiama? E quella laggiù?”.
Stanotte, al contrario, con le mie lenti spesse un dito sul naso, quei mille frammenti di luce li riconosco eccome. Mi sembra di essere caduta tra le righe di un libro della Burnett. Conto d’incontrare un coniglio col papillon e l’erre moscia che mi racconta i fatti suoi o magari un rospo che promette brillante compagnia, ma solo dopo un appassionato bacio sul naso. Pare ci sia un capriolo alato che se chiudi gli occhi e ci pensi fortissimo ti porta a Reggio in sella a mangiare i passatelli in brodo. Me l’ha giurato un signore con le guance rosso vermiglio questa mattina alla stazione di servizio, mentre facevo benzina.
Voglio mettere il naso dentro il bersò di rose antiche, ora. Qui ne hanno tante quante sono le stelle che ho sopra la testa. Chiedo una lanterna alla padrona di casa, una ragazza mora dal sorriso schietto che sa tanto di qui. Si chiama Cristina, porta in mano una candela col palmo teso a proteggere la fiamma dall’aria che si sposta mentre cammina veloce verso di me. M’indica la strada per il giardino. Racconta che ogni fiore ha la sua storia, un ricordo che è cresciuto nell’opportunità data da quel lembo di terra fecondo di profumi e colori. La luce in qualche stanza è ancora accesa. Quella della luna batte sui petali e crea una poesia delicata e potentissima. Mi torna in mente mia nonna che diceva sempre: “Senza pane sì, senza rose mai”.
S’è fatta ancora più notte. Salgo le scale in pietra e mi lancio a volo d’angelo sul letto. È morbido e fresco, profuma di cedro come la mensola che gli è vicina.
Tra i cuscini, Berta dagli occhi blù, la bambola ungherese che il padre di Cristina le ha portato di ritorno da un viaggio. Gertrude Jekyll è invece il nome della stanza. Omaggio alla spilungona fiorita che ogni tanto, stanca, si appoggia al primo arco disponibile per far crescere le sue rose dall’odore confortante. Allo stesso modo si chiama la scrittrice inglese, artista geniale ed eclettica, che a inizio novecento progettò più di 400 giardini. Ma quel Jekyll, ne sono piuttosto certa, deve aver qualcosa a che fare anche con Mrs. Hyde e lo strano caso a firma Stevenson.
Il tempo di una doccia calda, due occhi chiusi, e glielo chiedo.